Nell'ambito della successione per causa di morte, la disciplina codicistica riserva inderogabilmente a determinati soggetti, c.d. legittimari, una quota di eredità, della quale non possono essere in nessun caso privati per volontà del disponente.
Qualora un legittimario venga privato, in tutto o in parte, della sua quota indisponibile (c.d. legittima), per effetto di atti di liberalità, lo stesso potrà far valere il diritto al reintegro dell'intera quota mediante l'esercizio, entro dieci anni dall'apertura della successione, di un'apposita azione c.d. di riduzione, onde far dichiarare l'inefficacia delle disposizioni donative o testamentarie eccedenti la quota di cui il defunto poteva disporre.
L'azione di riduzione è dotata di efficacia reale: per effetto della risoluzione della donazione, a seguito di sentenza definitiva che ne abbia accertato la lesione di legittima, divengono riscattabili tutti i successivi trasferimenti immobiliari effettuati dal donatario e dai suoi aventi causa.
Problemi sorgono anche nell'ipotesi in cui il donante, al momento della donazione, sia privo di possibili legittimari; infatti il donante stesso ben potrebbe esperire azione revocatoria per ingratitudine del donatario o per sopravvenienza di figli. Quindi anche dopo che la donazione è perfezionata e ha iniziato a dispiegare i suoi effetti, la legge prevede queste due ipotesi in cui può divenire inefficace, a seguito della pronuncia giudiziale di revocazione emessa con sentenza. Senza dimenticare che l'azione revocatoria può essere esperita anche dai creditori del donante, i quali ritengano che l'atto abbia recato pregiudizio alle loro ragioni. Anche in questo caso è necessaria una pronuncia giudiziale. In entrambe le ipotesi, però, l'esperimento vittorioso dell'azione revocatoria comporta il venir meno degli effetti della donazione con conseguente restituzione dei beni in natura o dell'equivalente in denaro.
A questa situazione di incertezza giuridica si tenta di ovviare mediante alcuni istituti di applicazione sempre più diffusa: 1) innanzitutto, ai sensi dell'art. 557 c.c. i legittimari, i loro eredi o aventi causa possono rinunciare all'azione di riduzione. Questa soluzione, però, trova due inconvenienti notevoli. Il primo, più rilevante, consiste nell'impossibilità, da parte dei legittimari, di rinunziare all'azione di riduzione finché vive il donante. Il secondo inconveniente concerne il fatto che detta rinunzia, per apprestare una tutela veramente efficace, deve provenire da tutti i legittimari, circostanza che, in concreto, non sempre si rivela di facile attuazione; 2) negli ultimi anni si è fatta strada anche l'ipotesi del ricorso all'istituto della fidejussione come strumento atto a tutelare i terzi acquirenti di un immobile di provenienza donativa. Si tratterebbe in concreto di una fidejussione indemnitatis in quanto posta a garanzia non dell'adempimento di un debito ma del risarcimento del danno conseguente all'inadempimento del debito. Va segnalato, però, un orientamento giurisprudenziale che ha bocciato siffatta soluzione, ritenendo nulla la fideiussione per illiceità della causa ex art. 1344 c.c., giudicata stipulata in frode all'art. 549 c.c.; 3) di fronte a questa situazione normativa, è stata individuata sia in dottrina che in giurisprudenza una soluzione concreta e più affidabile, vale a dire la risoluzione della donazione per mutuo dissenso, di modo che, con una sorta di finzione giuridica, si possa considerare il bene immobile come mai uscito dal patrimonio del donante, attraverso il ripristino dello status quo ante. Infatti l'atto di mutuo dissenso ha efficacia retroattiva, pertanto la donazione si risolve con effetto ex tunc e il donante sarà ripristinato nella proprietà e nel possesso del bene donato con decorrenza dall'atto di donazione.
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